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Governo Renzi: il giorno della riforma del Senato

A cambiare è solo il nome: invece di Assemblea delle autonomie il nuovo Senato, rigorosamente non elettivo e senza indennità come vuole Matteo Renzi nonostante le polemiche della ultime ore, si chiamerà Senato delle Autonomie. Per il resto il testo di riforma costituzionale che sta per entrare in Consiglio dei ministri viene solo leggermente ritoccato, per motivi che appaiono soprattutto tecnici, rispetto alla proposta presentata dallo stesso premier il 12 marzo scorso.

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Nonostante le indiscrezioni degli ultimi giorni non è stata accolta, ad esempio, la richiesta di governatori e sindaci che i componenti del nuovo Senato fossero in numero proporzionale agli abitanti della Regione. «Il Senato delle Autonomie – è scritto nel testo di ingresso in Consiglio dei ministri – è composto dai Presidenti delle Giunte regionali, dai Presidenti delle Province autonome di Trento e Bolzano, dai sindaci dei Comuni capoluoghi di Regione e di Provincia autonoma, nonché, per ciascuna Regione, da due membri eletti, con voto limitato, al Consiglio regionale tra i propri componenti e da due sindaci eletti, con voto limitato, da un collegio elettorale costituito dai sindaci della Regione». Così come restano i 21 senatori nominati dal Capo dello Stato tra i «cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario».

Le competenze del nuovo Senato, inoltre, non sono allargate come chiedevano anche i senatori del Pd a materie come leggi elettorali e diritti civili: ci sarà il bicameralismo solo per le modifiche costituzionali. Insomma, nonostante e forse proprio in virtù delle polemiche, il premier va dritto come un treno sulla “sua” riforma, quella sulla quale ha messo la faccia ripetendo che se non passerà lascerà la politica.

La posta è altissima, e forse la scelta di non introdurre in questa fase le piccole modifiche di cui si è parlato in questi giorni è un modo per mantenere qualche margine di trattativa senza toccare i cardini della riforma renziana: ossia la fine del bicameralismo perfetto (la fiducia al governo è accordata dalla sola Camera), la non elettività del nuovo Senato e il fatto che i suoi componenti non percepiranno un’indennità essendo giù rappresentanti degli Enti locali.

La riforma prevede anche la cancellazione dalla Costituzione delle Province e del Cnel. Così come il rilevante capitolo della riforma del Titolo V della Costituzione che punta a mettere fine al dualismo Stato–Regioni in materia di competenze: spariscono infatti le materie concorrenti e ritornano allo Stato materie fondamentali come «produzione, trasporto e distribuzione nazionali di energia; grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza, porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale, programmazione strategica del turismo; ordinamento delle professioni intellettuali e della comunicazione». Di contro sono elencate le competenze delle Regioni, tra cui la pianificazione delle infrastrutture, i servizi alle imprese e i servizi scolastici. Il dato è tratto. Sta ora ai senatori, e alla trattativa politica, decidere se la grande riforma arriverà al traguardo.

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